XIII.

Il petrarchismo e la trattatistica del Cinquecento

1. Pietro Bembo

Abbiamo già ricordato il nome di Pietro Bembo a proposito delle liriche italiane dell’Ariosto e della revisione che questi fece del Furioso nella sua terza edizione. Proprio l’Ariosto esplicitamente lo ricordava nel suo poema come colui senza del quale la lirica sarebbe rimasta nelle condizioni della lirica «cortigiana» del Quattrocento, artificiosa e lambiccata, e come colui che aveva dato alla lingua italiana un carattere nazionale liberandola dal «volgar uso tetro», dalla disorganica condizione regionalistica o pesantemente latineggiante, e adeguandola agli ideali rinascimentali di armonia, regolarità, musicalità.

In effetti il significato dell’attività del Bembo è essenziale nelle prospettive del gusto e della civiltà letteraria cinquecentesca, anche se sarebbe errato ridurre interamente queste (nel loro lungo e complesso svolgimento storico e nelle loro stesse iniziali articolazioni) in una applicazione fedele degli insegnamenti del Bembo, del suo classicismo moderno, della sua linea idealizzante e platonica, trascurando insieme di precisare di questa la particolare natura, la complicata diversità delle sue stesse riprese in situazioni storiche e ambientali diverse, e la forza di altre linee già presenti nei primi decenni del secolo e tanto diversamente legate a profonde tendenze del realismo e del naturalismo rinascimentale.

Ma anche in una visione storica meno schematica del Rinascimento e del Cinquecento la presenza e la forza stimolante del bembismo sono cospicue e costituiscono una base fondamentale della storia letteraria cinquecentesca.

Quale fu anzitutto la figura reale di questo dittatore del gusto, di questo promotore di istanze e direttive letterarie?

Pietro Bembo, nato a Venezia nel 1470, ricevette (a Venezia, a Firenze, in Sicilia, a Padova, a Ferrara) una forte educazione umanistica latina e greca, accompagnata da una conoscenza della filosofia neoplatonica e della poesia volgare e di quella provenzale. Né mancò a lui, passato – dopo un periodo urbinate – a Roma nel 1512, un’esperienza della vita politica e diplomatica esplicata nei numerosi incarichi affidatigli dal papa Leone X per raggiungere piú tardi – dopo un lungo soggiorno veneto durante il quale egli torna a legarsi alla sua città natale con l’opera storiografica Historia veneta – l’onore del cappello cardinalizio, nel ’39, in una condizione di alto agio e prestigio indiscusso (fino alla morte, nel 1547) assai propizia al suo animo bisognoso di serenità e di consenso sociale e pur non privo di sinceri affetti familiari (quello per il fratello Carlo, la cui morte fu motivo di inesausti rimpianti), amicizie, amori (fra la forte passione per Maria Savorgnan che dette origine ad un carteggio amoroso di particolare freschezza e la piú tarda fedele unione praticamente coniugale con la Morosina da cui ebbe tre figli) e dunque tutt’altro che rigidamente pedantesco e tutto chiuso in un’unica e arida passione letteraria.

E tuttavia la passione letteraria, alimentata da un esercizio equilibrato e sereno di affetti e di esperienze, dominò indubbiamente la sua vita e in quella sostanzialmente confluí (arricchendola, ma mai superandone i prevalenti interessi) la sua notevole cultura filosofica che riprendeva le offerte della filosofia neoplatonica dell’ultimo Quattrocento, cosí come egli riprendeva, con metodi piú aggiornati e affinati, le offerte della grande filologia umanistica quattrocentesca.

Alla luce di quella passione e di una tensione spirituale che in quella cercava realizzazione e misura, il Bembo offrí alla nuova letteratura cinquecentesca tre opere fondamentali e fra loro chiaramente collegate pur nel loro sviluppo e in una sistemazione di idee e di norme pienamente raggiunti solo nell’ultima di quelle.

Con gli Asolani (iniziati nel 1497 e pubblicati nel 1505, dedicati a Lucrezia Borgia) il Bembo impostava assai originalmente un tipo di trattato in forma di dialogo di piú personaggi (e dunque in una forma corrispondente al bisogno di socievolezza e di collaborazione alla discussione di problemi attuali ben caratteristico della mondana e socievole civiltà rinascimentale) che, mentre promoverà un largo filone di trattati nel prosieguo del secolo, veniva prospettando una problematica fondamentale nella visione rinascimentale e nella sua linea piú idealizzante e nel suo bisogno di conciliazione fra istinti, intelletto e spirito religioso. Infatti al centro della discussione, che si svolge in tre parti sullo sfondo idillico della amena villa di Asolo, residenza di Caterina Cornaro, già regina di Cipro, sta il problema dell’amore e delle sue diverse interpretazioni, possibilità e implicazioni. Mentre cosí nella prima parte uno dei personaggi, Perottino, dimostra il carattere turpe e immorale dell’amore carnale, causa di infelicità e di peccati, nella seconda Gismondo sostiene al contrario la naturalità dell’amore, la sua essenzialità nella vita come causa di ogni vero affetto e come principio della stessa società civile, e nella terza Lavinello supera il contrasto precedente esaltando una piú alta concezione dell’amore, quello platonico, che nella contemplazione della bellezza terrena nei suoi aspetti ideali prepara a quella contemplazione della somma bellezza eterna e divina in cui l’animo totalmente si appaga e raggiunge la piena felicità, superando nella sua diretta comunicazione con Dio lo stesso gradino preparatorio dell’amor platonico.

In tal modo il Bembo operava anche un’importante divulgazione letteraria delle teorie filosofiche neoplatoniche quattrocentesche private della loro maggiore rigidezza teorica e offerte alle esigenze di una società mondana, elegante e raffinata, a cui quelle teorie cosí mediate e mondanizzate divenivano elemento utilizzabile in modi di vita pratici e sostegno di vita e di letteratura.

Ché infatti lo sforzo del Bembo – anche se infrenato ancora da certa pesantezza scrittoria e solenne e da una lingua piú impacciata nelle stesse liriche intercalate alla prosa dei dialoghi – puntava insieme sulla promozione di una nuova letteratura e di un nuovo gusto raffinato, elegante, piú generale e praticabile di quello umanistico-quattrocentesco.

Ma su questa strada soprattutto rivolta alla educazione del gusto e dello stile il Bembo venne progredendo con piú maturata meditazione di idee e piú intenso e personale esercizio di scrittore nelle sue rime, in cui assai piú decisamente che non nei componimenti lirici compresi negli Asolani (ancora legati in parte alla lirica cortigiana quattrocentesca) egli assumeva il Canzoniere del Petrarca come suo preciso modello, secondo l’idea della necessità di un unico modello esemplare che egli intanto esponeva in un trattatello latino De imitatione del 1513.

Le rime del Bembo, se non rivelano un grande poeta, non mancano però di una loro generale disposizione poetica, che sostiene il piú importante loro significato di concreta esemplificazione degli ideali poetici e stilistici dell’autore, del suo bando di una piú rigorosa fedeltà al modello petrarchesco, alternando toni piú lievi e dolci a toni piú gravi e solenni (si pensi per i primi a componimenti come «Solingo augello, se piangendo vai» e «O rossignuol, che ’n queste verdi fronde», e per i secondi alla canzone per la morte del fratello Carlo) secondo la sua interpretazione della poesia petrarchesca viva fra gravità e dolcezza e nella loro armoniosa unione.

Cosí con le Rime (edite per la prima volta solo nel 1530, ma composte fin dai primi anni del secolo) il Bembo dava concreto avvio alla lirica petrarchistica e ancora una volta corrispondeva alle esigenze, da lui acutamente intuite e promosse, di una società bisognosa di una poesia regolare e nazionale (per quanto legata ad un unico esemplare modello), elegante e capace di contemperare solennità e grazia, liberata dalle rozzezze della lirica quattrocentesca e dalle sue troppe concettose bizzarrie.

Alla composizione delle Rime il Bembo veniva intanto accompagnando la lunga elaborazione della sua opera maggiore, le Prose della volgar lingua, pubblicate nel 1525, e poi ripubblicate nel 1538 e nuovamente corrette dall’autore per l’edizione uscita postuma nel 1549.

Anch’esse, come gli Asolani, sono in forma di dialogo, che si immagina tenuto in casa del fratello Carlo, e al quale partecipano lo stesso Carlo, Giuliano de’ Medici, duca di Nemours, Federico Fregoso ed Ercole Strozzi.

Nella prima parte è trattato il problema della origine della lingua volgare, nata dal latino e dal contatto con le lingue germaniche degli invasori barbarici, e si dimostra la superiorità del fiorentino sugli altri volgari italiani, reso piú adatto alla espressione letteraria (quella che soprattutto stava a cuore al Bembo) dalle forme da esso prese nell’opera dei grandi scrittori del Trecento: sí anche Dante, ma (poiché Dante appare al Bembo non privo di rozzezze e troppo involuto in forme teologiche e filosofiche) soprattutto Petrarca, modello con il suo Canzoniere per la poesia, e Boccaccio, con il Decameron, modello per la prosa. Nella seconda parte la discussione si precisa piú direttamente sulle norme dello stile che il Bembo propone ricavandole, con finissima e minuta scelta di parole, disposizione di esse, del ritmo e della metrica, appunto dal Canzoniere e dal Decameron. Infine nel terzo libro si organizza una vera e propria grammatica della lingua volgare sempre con l’appoggio di una larghissima messe di esempi di scrittori, dato, ripeto, che il Bembo mira alla lingua letteraria, appoggiata dall’autorità degli scrittori, e non a quella parlata e corrente o popolare. Sí che il fiorentino da lui sostenuto non è quello parlato dal popolo, ma quello dei grandi scrittori del Trecento.

Cosí le Prose della volgar lingua costituiscono il manifesto illustre ed efficace delle posizioni bembesche circa la lingua letteraria italiana e circa il piú generale gusto della poesia e dello stile che il Bembo indirizza, con una adeguata forma letteraria elaborata e coerente (frutto maturo del suo infaticabile processo di scrittore), ad una lucida e soave eleganza, ad un’armonia e bellezza levigata e musicale, che trovano anzitutto applicazione nell’esercizio della lirica petrarchistica e che corrispondono alle esigenze piú idealizzanti della civiltà rinascimentale non solo nel piú preciso campo letterario, ma in quello del costume e del comportamento privato e socievole.

2. La lirica petrarchistica

Il Bembo, come dicevamo, dette l’avvio – con l’esempio concreto delle sue rime e con i precetti linguistici-stilistici delle Prose della volgar lingua imperniati sul grande modello del Canzoniere del Petrarca – ad una vastissima attività lirica che percorre tutto il secolo fino al Tasso e che centralmente si ispira agli ideali dell’amor platonico, e a quell’incontro di gravità e dolcezza, di solennità e di eleganza, di edonismo linguistico e di acuta analisi psicologica: ideali ed incontro appoggiati, sulla via indicata dal Bembo, all’insuperabile modello petrarchesco e spesso allo stesso percorso di autobiografia sentimentale e spirituale di diario poetico offerto da quel modello (innamoramento, pene e tormento di amore fiducioso e deluso, finale e intera conversione all’amore divino) arricchito dalla piú particolare linea dell’amor platonico che identifica nella donna amata un gradino nell’ascesa all’unione con Dio, come già era stato dimostrato nei dialoghi degli Asolani del Bembo e come dimostrerà nel finale del Cortegiano del Castiglione proprio il personaggio del Bembo cui viene affidata un’infiammata esaltazione dell’amor platonico.

Se l’immensa produzione di canzonieri petrarchistici scade spesso in una esercitazione ripetitoria e scarsamente ispirata, in un ossessivo ritorno di luoghi comuni e di riprese di moduli e motivi dell’imitato Petrarca, occorrerà subito dire però che nel suo insieme la lirica petrarchistica del Cinquecento costituisce comunque un importante esercizio letterario e come un’alta scuola di stile e di analisi psicologica essenziale nella generale educazione stilistica di quel secolo e che cosí sarà uno dei maggiori contributi che la letteratura rinascimentale offrirà alla formazione e all’affinamento delle letterature europee. E, d’altra parte, occorrerà anche ben rilevare il fatto che quella produzione non si riduce ad una massa grigia e informe di imitatori e versificatori senza ragioni e accenti personali e che nella generale impostazione e tensione si elevano pure opere poetiche che, a vario livello, portano contributi poetici originali e considerevoli, sicché l’imitazione petrarchesca non può esser considerata come una mortificazione della poesia o una semplice convenzione sociale, ma piuttosto come una scuola di stile non tutta passiva e pedantesca e anzi molto spesso feconda e ricca di variazioni personali e di accentuazioni diverse di motivi e toni anche nei diversi centri regionali e locali, non senza arricchimenti di temi non solamente amorosi, ma anche a volte civili, morali, o piú precisamente religiosi.

Cosí – puntando solo sui rappresentanti piú cospicui e originali – apparirà ben individuabile nel folto gruppo di rimatrici (ed anche questa partecipazione di donne alla civiltà letteraria del tempo è un fatto da sottolineare nell’espansione della cultura rinascimentale) la personalità della gentildonna romana Vittoria Colonna (1492-1547), sposa e poi presto vedova di Ferrante Francesco di Avalos, marchese di Pescara, che nelle sue liriche amorose e religiose (oltreché in lettere molto importanti per i loro alti temi religiosi e morali legati ad una volontà di riforma cattolica cui parteciperà lo stesso Michelangelo, della Colonna amico e fervido ammiratore) venne esprimendo il tema di un amore «perfetto» per il marito e per la sua memoria mai tradita, e un collegato tema religioso in forme lucide, severe e monumentali e non perciò semplicemente frigide e rigide. O risulterà pure ben individuabile su di un tono piú melodico e patetico, meno platonicamente intenso e meno culturalmente arduo, e in una forma di piú preciso e sincero diario amoroso sfociante in finali e commosse rime di pentimento e di conversione religiosa, la voce gentile e affabile della padovana Gaspara Stampa (1520 circa-1554), frutto di una personale ispirazione piú edonistica e di un ambiente (quello veneziano in cui essa visse in una posizione di «cortigiana onesta», passata per diversi amori, anche se soprattutto affascinata da quello per il gentiluomo Collatino di Collalto) piú spregiudicato e aperto al gusto della musicalità e del colore.

Mentre, in una posizione di fortissima tensione creativa e spirituale, spicca la eccezionale personalità di Michelangelo Buonarroti (Caprese in Toscana 1475-Roma 1564), che – formidabile nella potenza espressiva delle sue lettere, dominate da un’urgenza e immediatezza che rifiutano ogni retorica e ogni tipo di eloquenza ornata e classicistica, e tanto ci dicono sull’energia e sul tormento di questo grande personaggio drammatico – anche nelle sue liriche, ardue e complesse fino a certa enigmatica concettosità e a certa apparente approssimatività formale, si rivela ben diversa da quella di un dilettante sprovveduto e faticoso (immaginato spesso cosí diverso dal grande artista nelle sue opere di architetto, scultore e pittore) ed esprime una vita interiore altissima, esacerbata, tormentata da contrastanti spinte dell’amor platonico e di una sensualità ardente (e insieme avvertita come ostacolo alla sua potente aspirazione religiosa) e stimolata da un profondo sentimento della crisi storica, politica, religiosa del Rinascimento. Michelangelo, infatti, soffrí profondamente lo scacco della caduta della libertà della Firenze repubblicana (alla cui difesa contro le armate imperiali e medicee partecipò come soprintendente alle fortificazioni della città), soffrí profondamente della sconfitta di quella riforma cattolica che auspicava un rinnovamento evangelico e savonaroliano della Chiesa e che venne strozzata dalla Controriforma e dal Concilio di Trento, mentre avvertiva l’insufficienza delle stesse forze dell’uomo, pur da lui tanto potentemente esaltate, di fronte ai flagelli dell’ira divina da lui verificati nelle guerre che desolavano l’Italia. Da questi profondi turbamenti, ben presenti nelle sue grandi opere figurative e approfonditi nelle sue ultime sculture come la Pietà Rondanini, traggono forza anche le sue liriche tormentate, ardue, fondate su profondi contrasti e cosí piú lontane dall’armonia equilibrata e da ogni facile edonismo e aperte ad anticipi di un gusto che va al di là di quello del pieno Rinascimento, sia per le loro forme stilistiche, sia per i loro contenuti spirituali e religiosi assillanti, che culminano nei piú tardi sonetti aspiranti alla grazia divina, alla salvezza dell’anima, e pur drammaticamente tormentati dalla paura delle tentazioni corporee sempre possibili, dal pensiero della morte che può cogliere l’uomo in stato di peccato.

Del resto l’equilibrio e il giuoco fra gravità e dolcezza che predominavano nel petrarchismo di primo Cinquecento vanno diminuendo anche in altre delle piú interessanti personalità liriche di metà Cinquecento. Come è il caso del calabrese Galeazzo di Tarsia (1520-1553), autore di un canzoniere amoroso (in parte scritto per la moglie morta e rievocata con esaltata passione) che si distingue per risentita forza e per una densità di sentimenti virili tesi e per una forza immaginosa e metaforica che giunge sino ad una certa complicatezza ormai assai lontana dalle forme piú levigate e armoniche del primo Cinquecento.

O come è il caso del venosino Luigi Tansillo (1510-1568), che portò sia nei suoi poemetti erotici e descrittivi sia nelle sue liriche una nuova esuberanza di forti colori, e chiaroscuri paesistici (con aspetti insoliti di paesaggi aspri e selvaggi) e di accenti accesamente sensuali che vengono aprendosi, pur nella fedeltà agli schemi del petrarchismo, verso forme prebarocche e barocche che proprio nell’Italia meridionale avranno piú forte sviluppo tra fine Cinquecento e Seicento e che cosí potranno riconoscere nel Tansillo una specie di parziale anticipatore di nuove condizioni di gusto.

E non mancò nel meridione la voce di una poetessa come Isabella di Morra (uccisa, pare, nel 1546 dai fratelli, signori di Favale in Basilicata, dopo ch’ebbero scoperto una sua relazione col signore di un castello vicino), la cui poesia può bene iscriversi nella storia del petrarchismo, sia pure sperimentato in una condizione di isolamento, che favorisce la densa espressione di un dolore privato, ma insieme anche la formazione di una misura di stile meditativo ed eloquente.

Piú rilevante è infine il caso del fiorentino Giovanni Della Casa (1503-1556), la cui complessa personalità cercò attuazione sia nell’attività pratica come ecclesiastico e diplomatico della Curia papale (a cui si ricollegano famose orazioni di alta eloquenza modellata sull’esempio dell’oratoria ciceroniana), sia in quella letteraria che, iniziata con capitoli burleschi e spesso osceni e con un esercizio di lirica petrarchistica all’insegna precisa del modello del Bembo, si venne soprattutto approfondendo e maturando quando negli anni piú tardi, perduta la speranza del cappello cardinalizio, egli si ritirò a lungo nella solitudine della Badia di Nervesa nel Veneto e qui ricavò dalle sue delusioni personali e storiche una visione amara e intima della vita, un maggiore slancio verso la fede, una riconsiderazione profonda della propria esperienza e della generale esperienza della situazione umana. È allora che nel suo complesso esercizio lirico, sostenuto dall’educazione petrarchistico-bembistica e ciceroniana e portato avanti con una forte, esigente cura di originalità tecnica, si sviluppano motivi fra i piú profondi del secolo, che si realizzano in alcuni sonetti esemplari per una loro musica aspra e dolente, in cui l’uso di mezzi stilistici (quale la rottura entro il verso e il passaggio del pensiero e del ritmo da verso a verso mediante l’«arcatura» o enjambement) supera il suo semplice significato di trovata tecnica e corrisponde e serve ad una articolazione del motivo lirico e intimo di grande efficacia e originalità, sia che esso svolga la contemplazione e la comparazione fra le selve nevose del Montello e la sua vita – e in genere la vita – breve e senilmente desolata e raggelata, sia che esso presenti in una luce metafisica e irreale, in un grandioso distacco compositivo, il contrasto religioso e solenne fra la breve e oscura vita mortale considerata in una prospettiva semplicemente mondana e la luce pura e chiara che la fede in Dio porta sulla sua stessa creazione e sulla stessa vita dell’uomo.

Ma, accanto alle rime che, con i pochi e altissimi sonetti finali, toccano le punte piú alte della lirica cinquecentesca (e apparvero esemplari alla nuova maniera poetica del Tasso), il Della Casa, che già aveva scritto prima un Trattato degli uffici comuni, redatto in latino e insieme tradotto dallo stesso autore in volgare, e ancora prima un trattatello scherzoso in latino An uxor sit ducenda (sulla bontà o meno del matrimonio), scrisse anche nel periodo tardo della sua vita un trattatello morale, il Galateo (scritto su suggerimento di Galeazzo – latinamente Galateus – Florimonte e perciò cosí intitolato) in cui egli volle condensare le sue esperienze della vita socievole, soprattutto indicando minutamente le norme di una «civile conversazione» e tutto ciò che è da evitare da parte dell’«uomo privato» nel rapporto con gli altri per non disturbarli e offenderli soprattutto in quelle piccole cose (fino alle scorrettezze di lingua) che spesso sono piú fastidiose di colpe gravi, perché consuete e frequenti. A tal fine egli si serví di una scrittura agile e duttile, ordinata e intelligente, che passa senza fatica da norme di comportamento a piccoli aneddoti o a vere e proprie novellette, ad esempi concreti e gustosi.

3. La trattatistica cinquecentesca

Sulla via aperta dal Bembo con gli Asolani si sviluppa nel Cinquecento un altro importante filone di letteratura in prosa volta a configurare, in forma di dialogo e di trattato, ideali modelli di comportamento nella vita privata e socievole, cui già abbiamo accennato alla fine del paragrafo precedente parlando del Galateo del Della Casa. La civiltà rinascimentale tende, infatti, a proporre regole di vita, norme di atteggiamento, risoluzioni di problemi che sono fondamentali in una visione della vita equilibrata, armonica, raffinata, saggia e sicura nel conciliare aspirazioni, ideali e pratica possibilità di realizzarli concretamente.

Cosí aveva fatto il Bembo negli Asolani per il problema dell’amore e cosí fecero numerosi scrittori che si sforzarono di giustificare la passione amorosa, fondamentale nella vita dell’uomo, non mortificandola nell’ascetismo medievale ma indirizzandola, mediante la concezione platonica dell’amore, ad un suo elevato e nobilitante significato spirituale.

Ma a una piú complessa problematica e a una proposta di un piú generale modo di vita, valido per una società alta e aristocratica, si volse Baldassarre Castiglione con il suo Cortegiano, libro fondamentale per meglio capire le esigenze e gli ideali del pieno Rinascimento, sia nel loro aspetto di costume sia negli stessi aspetti estetici espressi con tanta potenza e complessità fantastica e umana nel capolavoro poetico dell’Ariosto.

Il Castiglione, nato nel 1478 a Casatico, presso Mantova, fu insieme un letterato, dotato di sicura preparazione umanistica, e autore di rime e di altri componimenti letterari (come l’ecloga teatrale Tirsi), e un gentiluomo e uomo di corte che mise la sua cultura e la sua esperienza diplomatica al servizio di vari signori e stati rinascimentali: dopo piú brevi periodi passati al servizio di Ludovico il Moro, duca di Milano, e di Francesco Gonzaga, duca di Mantova, nel 1504 passò alla corte dei Montefeltro, duchi di Urbino, rimanendovi per dieci anni, e partecipando alla vita di quel ducato sia in imprese militari sia in ambascerie, finché – dopo un breve ritorno a Mantova, alle dipendenze di quel ducato, e la morte della moglie – entrò nella carriera ecclesiastica e fu adoperato dal papa Clemente VII nella importantissima carica di nunzio pontificio alla corte di Madrid. Fu questo il momento piú alto e impegnativo dell’attività diplomatica del Castiglione, ma anche il piú drammatico e sfortunato; perché, non avendo saputo intuire le intenzioni dell’imperatore Carlo V e la spedizione che portò al sacco di Roma nel 1527, egli risentí, anzitutto nella sua stessa scrupolosa coscienza, la grave responsabilità di tale mancata previsione e il fallimento della sua carriera di diplomatico e dei suoi stessi ideali politici, tanto che l’amarezza in lui derivatane aggravò la sua malferma salute e lo condusse, poco piú che cinquantenne, a morte (a Toledo nel febbraio del 1529).

Diplomatico, cortigiano, gentiluomo, partecipe di persona a fatti d’arme, conoscitore e fautore di una politica sottile e imperniata sullo sfruttamento dei contrasti delle maggiori potenze in lotta (spagnoli e francesi) per mantenere il precario equilibrio degli stati italiani da lui successivamente serviti, il Castiglione è già come personalità un tipico rappresentante della società nobiliare e cortigiana italiana del primo Cinquecento. Ed è in forza di tali sue qualità, della sua ricca e varia esperienza della vita contemporanea, e, d’altra parte, dei suoi ideali etici ed estetici di equilibrio, di signorile armonia e bellezza, di organico sviluppo di tutte le doti dell’uomo completo, alla luce di un incontro fra l’esemplarità – umana e letteraria – dei classici e il bisogno di nuove norme adatte alla vita del proprio tempo storico, che il Castiglione, piú che nelle rime o in altri componimenti, trovò la sua espressione piú genuina, personale e storica, in quel ricordato trattato, il Cortegiano, compiuto nel 1518 (anche se pubblicato solo nel 1528, con nuovo lungo lavoro di revisione), ideato negli anni del soggiorno alla corte e nel palazzo di Urbino, da cui il libro ricaverà il suo scenario nobile e sereno e gli stessi personaggi (la duchessa Elisabetta Gonzaga, la sua cognata, Emilia Pia, Ottaviano e Federigo Fregoso, Giuliano de’ Medici, Ludovico di Canossa, il Bibbiena e il Bembo) partecipanti ai dialoghi svolti nelle quattro parti del libro, corrispondenti a quattro serate immaginate nella primavera del 1507.

Quali sono i temi di queste nobili e pacate e pur fervide discussioni e conversazioni fra personaggi di alto ingegno, di raffinata cultura e di alta condizione sociale, a cui piú brevemente intervengono personaggi minori che le animano con pareri e battute spesso piú briose e argute?

Dopo l’iniziale descrizione di Urbino e del suo meraviglioso palazzo e le lodi dei Montefeltro (con cui il Castiglione vien creando piú indirettamente l’atmosfera di eleganza e di signorile ed elevata spiritualità che domina il libro e che qui si presenta nella stessa delineazione di ambienti e paesaggi composti ed armonici), nelle due prime serate si imposta e si svolge il proposito del Castiglione di «formar con parole il perfetto cortegiano», cioè di individuare, ancor piú che regole astratte, le qualità di cui deve esser fornito un esemplare (e perciò «perfetto») uomo di corte: anzitutto una nascita nobile, una sicura abilità negli esercizi fisici e cavallereschi, una salda esperienza nell’uso delle armi e nell’arte della guerra, una duttile capacità politica e diplomatica (ché egli dovrà soprattutto servire il suo signore nella guerra e nella politica), ma insieme (per poter operare in una civiltà e in una società cosí diverse da quelle di tempi rozzi ed incolti) un animo gentile ed educato, una moralità genuina e leale, una cultura vasta e una capacità di gusto nelle arti figurative, nella musica, nella letteratura e nel suo esercizio concreto in versi e in prosa, come dimostrerà nella prima serata Ludovico di Canossa. Mentre poi, nella seconda serata, attraverso le parole di Federigo Fregoso, il ritratto esemplare del «cortegiano» verrà arricchito di doti piú socievoli, necessarie alla pratica della vita di corte (la piacevolezza della conversazione, l’accorta scelta delle amicizie, e sino l’eleganza non affettata e non eccentrica del vestire), e ancora di altre doti a quelle connesse ed esposte dal Bibbiena: il possesso e l’uso appropriato del brio, delle battute facete, degli scherzi con cui il cortegiano dovrà rendersi grato e interessante ad una società alta, ma tutt’altro che rigida e arcigna, allargata all’intervento delle donne e della loro gentile collaborazione a rapporti di particolare finezza e di socievolezza elegante e affabile. Perciò nella terza serata Giuliano de’ Medici si rivolgerà particolarmente alla illustrazione delle doti necessarie alla donna di corte, colta e modesta, mai frivola e sfrontata, ma insieme non ritrosa e restia alla conversazione e alla sua onesta piacevolezza. Nella quarta serata, infine, Ottaviano Fregoso riprenderà direttamente il ritratto del cortegiano cercando di ricondurlo alla sua funzione essenziale di collaboratore del principe, fedele, ma non servile, cauto, ma pur pronto a consigliarlo, a sorreggerne il regime politico appoggiato sulla giustizia, sulla benintesa e non superstiziosa religione, su di una moderata libertà, sulla concordia fra le varie classi dei sudditi.

Ma la spinta cosí profonda nell’epoca rinascimentale alla valorizzazione dell’amore nella sua forza di stimolo spirituale a tutta la vita provoca come un’aggiunta, tutt’altro che fittizia e inessenziale, al completamento dell’ideale ritratto dell’uomo di corte. E non a caso la fervida perorazione a favore dell’amore che non deve mancare al cortegiano (ed anzi deve coronarne ed esaltarne tutte le qualità prima elencate) è posta in bocca al Bembo, che esalta – come aveva fatto direttamente negli Asolani – l’amor platonico che dalla contemplazione della bellezza conduce lo spirito in un’ascesa incessante verso Dio.

Cosí il Castiglione si ricollegava al maestro del gusto e dell’idealismo platonico, il Bembo, e in quelle ultime pagine – certo le piú accese e belle di tutto il libro – ricollegava il suo trattato di educazione aristocratica alle piú profonde ragioni ideali del secolo e alle istanze di fondo su cui si appoggiava la stessa idea e volontà di creare esemplari modelli di comportamento che introducessero nella società del tempo una fondamentale unità, un’ideale concordia e armonia da contrapporre – sulla base del platonismo – alla molteplicità e irregolare diversità delle nature e dei comportamenti umani.

Da ciò deriva una certa olimpica fissità della figura «perfetta» ed esemplare dell’uomo di corte che rimase a lungo modello ammirato e imitato nella società cinquecentesca e dette grande fortuna ed efficacia al libro del Castiglione in tutta l’Europa nobiliare e cortigiana. Ma insieme va detto che la stessa esemplarità del modello del cortigiano si compone di una tale minuta e vivace ricchezza di analisi delle esigenze, delle qualità, degli ideali storici dell’alta società rinascimentale, che tale esemplarità armonica e ideale è in realtà diversa da un’assoluta astrazione intellettualistica e in essa l’uomo concreto del Rinascimento poteva pur riconoscersi in aspetti essenziali della sua realtà e delle sue aspirazioni: l’amore di un ordine interiore e di rapporti socievoli, di un controllo di se stesso e delle cose del mondo conosciute con intelligente acutezza, di una sintesi efficace e attiva di doti fisiche e spirituali.

Tanto che, pur nella precisa rispondenza ad ideali di una società alta e signorile, il Cortegiano riflette pure piú generali esigenze rinascimentali al di là della precisa origine e destinazione di classe.

Né per quanto riguarda la prosa del Castiglione essa può ridursi solo ad un raffinato amore della costruzione limpida ed elegante, perché in quella limpidezza ed eleganza, in quella tendenza alla bellezza formale, pur si riflettono e vivono spinte fresche e autentiche di un’esperienza umana tutt’altro che pedantesca e libresca e persino, seppur piú raramente e sottilmente, l’affiorare di tenui elementi di un’amarezza e di una malinconia che tanto piú scopertamente possono cogliersi, fuori del Cortegiano, in alcune lettere del notevole epistolario cortigianesco e particolarmente in quelle in cui, nella fase finale e drammatica della sua vita, lo scrittore si volge a giustificare a Clemente VII la sua condotta diplomatica e a scagionarsi – non senza tormento – dalle accuse rivoltegli di non aver saputo prevedere la condotta di Carlo V e il sacco di Roma.

Piú tardi, nello sviluppo di questo secolo tutt’altro che facilmente unitario e progressivamente investito da un crescente contrasto fra la tendenza all’armonia, all’equilibrio morale e formale e una crisi inquieta sollecitata dalle vicende storiche dell’Italia divisa e dominata dalle potenze straniere, la trattatistica tesa a proporre modelli esemplari di comportamento viene riflettendo in sé sempre piú elementi di una saggezza piú disillusa e meno fiduciosa di raggiungere quell’armonia e quell’equilibrio cui pure tende ed aspira. Ne accennammo già per lo stesso Galateo del Della Casa, ma piú chiaro sarà il caso assai significativo dei dialoghi del fiorentino Giovan Battista Gelli, che nella sua stessa condizione sociale di popolano mostra insieme la forza di diffusione anche in strati popolari degli ideali neoplatonici divulgati dal Bembo all’inizio del secolo e, d’altra parte, la correzione che ad essi derivava da esperienze piú difficili della vita, da istanze religiose piú popolari, nonché, come dicevo, dalle crescenti inquietudini del secolo nel suo piú avanzato svolgimento.

Nato a Firenze nel 1498, il Gelli esercitò per tutta la vita il mestiere umile di calzolaio (e a Firenze morí nel 1563), associando alla sua attività di artigiano una lunga operosità letteraria ispirata da un sincero amore per la cultura e per la poesia e da una prevalente esigenza morale e religiosa rivelata nel suo profondo culto per Dante come poeta teologo (ed anche come poeta «fiorentino» amato da lui per un certo forte campanilismo anche linguistico) e collegata anche alla eredità savonaroliana persistente nell’ambiente fiorentino specie popolare.

Piú di una scialba commedia, La sporta, e delle stesse pur interessanti Letture sopra la Commedia (nate dalle sue pubbliche letture dantesche), meritano considerazione appunto due opere in forma di dialogo che mirano a presentare i suoi ideali e il frutto della sua meditazione morale-religiosa e della sua esperienza vitale e che – come prima accennavo – indicano nella sua tensione alla saggezza, alla compostezza equilibrata e armonica (comune alla tendenza platonica e idealizzante della linea iniziata dal Bembo), una maggiore presenza di elementi di amarezza e di cristiana accettazione dei mali della vita e dei vizi degli uomini, rafforzati dal suo popolare buon senso e dalla sua lettura dei classici.

Nella prima opera, i Ragionamenti di Giusto bottaio (o Capricci di Giusto bottaio, del 1548), il Gelli crea una figura, quella di Giusto, vecchio popolano, tutta presa da un fitto dialogo con la propria anima, incerta fra le tentazioni delle passioni e l’aspirazione intellettuale e religiosa, platonica e cristiana, ad una pace e felicità che può solo derivare dal superamento delle passioni e mediante una saggezza nutrita di fede, di buon senso, di filosofia (necessaria, dunque, anche ad un uomo semplice e comune).

Nella seconda, la Circe (del 1549), egli immagina – in una visione piú complessa e pessimistica – che Ulisse (simbolo della ragione) ottenga da Circe (simbolo della sensualità) di poter restituire a condizione umana i compagni tramutati – secondo l’antico mito – dalla maga in bestie, se egli saprà a ciò persuaderli. Ma solo uno degli undici uomini trasformati in bestie accetterà le ragioni e le proposte di Ulisse, tanta è la triste persuasione degli altri sulla infelicità della condizione umana, mentre quello solo che preferisce l’infelicità alla bestialità riconosce proprio nella sofferenza la vera dignità dell’uomo, il mezzo che sollecita questo a sollevare il suo sguardo dalle cose terrene verso la divinità e l’eternità spirituale.

In tali opere il Gelli, se non dimostra qualità geniali di pensatore e di scrittore, ben dimostra però la sua acuta esperienza della vita e, nella sua prosa vivace e colorita, propone un tipo di saggezza piú pratica, piú quotidiana, piú realistica, piú consapevole del dramma dell’uomo ad ogni livello di condizione, assai diverso (pur nelle simili conclusioni finali di tensione all’equilibrio e all’armonia) da quello piú splendido e sicuro, piú sostanzialmente ottimistico del Bembo o del Castiglione, in cui l’esperienza della realtà effettiva era, non assente, ma come smussata e superata da una piú superba certezza nella forza degli ideali umanistico-rinascimentali.

4. La questione della lingua

La proposta da parte del Bembo del fiorentino dei grandi trecentisti come lingua letteraria nazionale, anche se largamente accettata e rimasta fondamentale nel classicismo «moderno» del Cinquecento (e piú tardi base di quello che sarà il «purismo» fino nell’Ottocento), non mancò però di suscitare discussioni e proposte alternative od opposte, anche se dominate ugualmente dalla ricerca di una comune lingua italiana. Mentre cosí su una posizione assai sfumata rispetto a quella del Bembo il Castiglione se ne differenziava per un’accettazione meno rigida del fiorentino e dei modelli del Petrarca e del Boccaccio, un’apertura maggiore alla lingua d’uso, ad innovazioni e neologismi, piú sistematicamente a quella del Bembo si opponeva il vicentino Giangiorgio Trissino che, dopo aver dato una versione italiana del De vulgari eloquentia di Dante, ne riprendeva, con uno sforzo assai astratto e poco capace di incidere sulla concreta pratica linguistica, le teorie in un dialogo, il Castellano (1529), che propugnava l’idea di una lingua italiana ottenuta con l’individuazione dell’elemento piú comune di tutti i dialetti italiani, ma spogliata dalla piú particolare differenza di parole, di grammatica, di pronuncia.

Né fra gli stessi scrittori toscani e addirittura fiorentini l’accettazione della teoria bembesca fu pacifica. E se il senese Claudio Tolomei nei suoi dialoghi, il Polito (1525) e il Cesano (1527), propugnava la preminenza del toscano comune a tutta la regione e non del fiorentino specialmente se ristretto a quello dei modelli trecenteschi, il Machiavelli fin dal 1514 in un Dialogo intorno alla lingua aveva già preventivamente preso posizione sia contro le idee di una lingua comune d’Italia (sul tipo di quelle poi sostenute dal Trissino), sia anche contro il piú rigido bembismo, proponendo sí il fiorentino, ma non solo quello degli scrittori trecenteschi e non solo quello consacrato, bensí anche quello dell’uso parlato e sin popolare, in una concezione democratica della lingua ben diversa dunque da quella aristocratica e interamente letteraria del Bembo.